LA GRANDINE SULLE
COLLINE DELLE LANGHE
Testimonianze ed illusioni
Dal notiziario 1/2001 della Cantina
Sociale Produttori del Barbaresco
Si tratta di una testimonianza storica sull'influenza della
grandine nell'ambiente rurale che si conclude ahimè alimentando
moderne illusioni sulla presunta efficacia dei cannoni antigrandine,
non scevra da inesattezze.
I TEMPORALI GRANDINIFERI
Vivissimo è il pensiero di quell’orizzonte, quando, alcune decine di anni addietro, lo si “sentiva”, oltre che cara immagine panoramica, anche foriero di gravi flagelli…. infatti da quella parte (nord-ovest) durante i mesi estivi incombono, come spada di Damocle, i “temporali grandiniferi”.
L’ora di maggior pericolo il primo pomeriggio, momento della massima calura. Parata di grandi cirri bianchi nel cielo blu intenso per contrasto, che avanzano minacciosi dall’alto, protendendosi, a guisa di mostri predatori, sulle verdi colline ammantate di vigneti, frumento, granoturco ecc. Sotto, quasi improvviso, un largo fronte orizzontale di nubi compatte, plumbee, che avanza sfiorando le cime delle colline antistanti.
S’avvicina con sorprendente velocità, diventando sempre più grigio, quasi nero, oscurando la luce del giorno, mentre le fronde degli alberi si scuotono, inermi, sotto violente folate di vento gelido. Ormai è a poche centinaia di metri e t’invade come una gigantesca cascata. Tragica potenza della natura. Lampi spettacolari dall’alto, zigzagando, si scaricano a terra in una frazione di secondo, scatenando raffiche di tuoni stridenti per la vicinanza.
Ed ecco sbattuti dal vento, i primi chicchi: lo stesso lugubre sibilo di una frecciata che ti colpisce nell’anima, che ti conferma l’inevitabile. Poi, da ogni parte una graticola di
colpi [l'anonimo Autore forse intende gragnuola, ndr], sempre in crescendo con sinistri rumori diversi sul tetto, sul selciato, sulle fronde degli alberi e… sulle vigne!
E’ il momento in cui non basta più ripararsi, bisogna chiudersi in casa. Allora noi bambini, appena consci della calamità, si correva in cucina, il punto centrale dell’abitazione. La mamma, la nonna, inginocchiate davanti all’immagine della Madonna, la candela benedetta accesa, il rosario antico tra le mani…..Ave Maria e Santa Maria concitate; voci alternate dallo spavento, preghiere interrotte dai singhiozzi…. Mentre fuori il calpestio incombe su tutto. L’albero prossimo alla finestra, l’unico visibile attraverso il rovinoso precipitare degli elementi, un gelso, estrema risorsa per la coltura del baco da seta, si ripulisce, con incredibile velocità di ogni foglia e, come quello, alla fine tutt’intorno è diventato inverno.
Erano sfumate, in pochi minuti, le fatiche e le speranze; si prospettava un altro anno di rinunce.
E tornava il sole immediatamente, come succede dopo i temporali, un sole brillante, lucente su quanto era rimasto delle colture. “La quiete dopo la tempesta”: è probabile che Leopardi, sia pur permeato della propria innata tristezza, risentì, nel comporre la famosa poesia, di quello che può essere l’umore del contadino dopo una grandinata.
Uscivano allora gli uomini, per le strade sterrate, rese fangose dall’abbondante precipitazione; sconsolati esaminavano le vigne scendendo e salendo muti le capezzagne. Annotavano qualche grappolo solo in parte sbrecciato rimasto al riparo di un palo. S’incontravano con altri contadini del vicinato. Poche parole improntate alla fatalità: da questo versante ha distrutto tutto…. Di là ha colpito meno….. una parte del poggio si è salvata grazie al vento che ha fatto “volare” oltre i chicchi… in quella striscia è andato perso il prodotto di due anni.
Quest’ultima circostanza era la più grave: succedeva infatti che il persistere del calpestio rovinava completamente l’apparato germogliare della vite incrinando anche i tralci compromettendo addirittura la potatura dell’anno successivo.
CASTIGO INGIUSTO
Flagello venuto dal cielo ed al cielo veniva istintivo rivolgersi per implorare e a volte anche per condannare. Famiglie profondamente devote, assolutamente praticanti, serene nelle proprie convinzioni che si trovavano duramente colpite ed erano propense a considerarlo un castigo immeritato, ingiusto.
Si verificavano situazioni in cui emergeva platealmente la mentalità di allora, fatta di un’umanità elementare, specie nelle persone più semplici. Ad ogni nuovo anno queste erano consuete scandire la loro vita e misurare con il proprio lavoro e la propria dedizione, l’avvento della primavera in tutte le manifestazioni di rinascita e di ricrescita. L’ammantarsi di verde delle colline, il miracolo dello sbocciare dei fiori, la fatica per proteggerli nell’allegagione e nell’invaiatura, , tutto lavoro fatto a mano, ed infine il lento, costante processo di maturazione.
L’interruzione improvvisa e violenta di questo decorso suscitava reazioni imprevedibili, a volte patetiche o curiose. Mi sovviene un fatto del quale poi, per anni si è parlato, ovviamente per dileggio.
Un padre di famiglia, sconvolto dallo scempio dei raccolti, aveva recuperato un grosso crocefisso in legno (se ne trovavano allora in certe cascine patriarcali) e legatolo ad una cordicella, lo trascinava attraverso i filari in modo che potesse “vedere” i danni che “aveva arrecati”. Imbrattato di fango, foglie, germogli, uve distrutte a terra, la croce, a volte s’incastrava nei ceppi delle viti ed era un’ennesima imprecazione: “NON VUOI VENIRE…TI VERGOGNI…NON VUOI VEDERE IL MALE CHE HAI FATTO…….” e via di questo passo.
Sono atti certo che denotano sprovvedutezza o puerilità, che non dovrebbero probabilmente nemmeno suscitare il ricordo, ma fanno parte di un’esistenza improntata ad una devozione e una fede oggi impensabile.
Non solo le viti, anche il frumento e il mais e altre colture annuali potevano subire danni letali. Pestate e spiaccicate al terreno non c’era più ombra di frutto.
Ne risentivano meno quelle aziende che puntavano di più sulla stalla. Con mucche e vitelli possedevano prati nel fondo valle, o meglio, irrigui, nella pianura del Tanaro. L’erba da fieno, se pur colpita e ridotta a poche centimetri di altezza, si tagliava e ricresceva in poche settimane: proprio per questo gli agricoltori che potevano diversificavano la propria attività il più possibile.
UN MODO PER SOPRAVVIVERE
Sulle colline del vino ci si trovava improvvisamente nell’indigenza. Ne soffrivano i mezzadri che erano costretti a cercare sostentamento da sporadiche colture stagionali, ma anche i proprietari non erano in condizioni migliori. A volte si arrivava persino a cedere un pezzo di terreno per riassestare la situazione. Spesso si ricorreva al famigerato “ebreo”.
Per ebreo si intendevano effettivamente famiglie di origine ebrea che, dalle nostre parti, non erano veri agricoltori, ma piuttosto latifondisti con posizioni finanziarie in grado di concedere prestiti o, all’occorrenza, di acquistare terreni o intere proprietà. A volte la grandine significava addirittura la necessità di vendere tutto, cambiare lavoro e vita.
Seicento anime appena, raccolte in pochi chilometri quadrati, a Barbaresco un temporale generalmente interessa tutti, colpisce tutti.
Attraverso le generazioni si era creato un istintivo senso di difesa per scongiurare il pericolo; una ricerca di protezione suffragata dalla fede ed esternata nel culto e nella preghiera. Nell’Ottocento era stata costruita una chiesa dedicata a S. Donato protettore dei raccolti. Si pregava; in primavera si predisponevano processioni ai piloni circostanti il capoluogo: canti e benedizioni in cui era ricorrente l’invocazione: “a fulgore tempestate…libera nos Domine..”
“Siamo sotto il cielo” si diceva allora con una certa rassegnazione, e, a differenza di oggi, non c’erano altre soluzioni.
TEMPI MODERNI
Quello che si chiama comunemente il “Boom degli Anni ‘60”, sulle Langhe arriva con una decina d’anni di ritardo: è infatti negli Anni ’70 che la situazione migliora, i mercati esteri scoprono i grandi vini piemontesi, il consumatore italiano diventa più esigente e desideroso di bere bene. Grazie al benessere ritrovato l’agricoltore, che ora finalmente ha nella vigna una preziosa fonte di guadagno, cerca una difesa più efficiente dalla grandine, che non le processioni e le preghiere. Sono gli anni della difesa passiva, ovvero dell’assicurazione, che non tutela il raccolto, ma per lo meno, salva il reddito del viticoltore
colpito [e ancora oggi la difesa passiva è l'unica ragionevolmente
applicata, ndr].
Con il nuovo secolo però, anche questo non basta più: oggi i grappoli di Nebbiolo sono troppo preziosi da dover dipendere così tanto dai capricci del tempo, e da quelli degli assicuratori! Certo ci saranno sempre annate più buone ed altre meno, ma la grandine, il flagello divino, forse può essere combattuto grazie ad una volontà comune ed allo spirito di collaborazione. E’ l’ora dei cannoni!
L’impegno dell’uomo a difendere le sue coltivazioni dalla grandine non è di adesso. Fin dal Medio Evo i Cinesi erano soliti, all’approssimarsi di un temporale, riunirsi in grandi gruppi (500 – 600 persone) e – rivolti verso l’alto – emettere urli a cadenza costante per scongiurare gli eventi grandinigeni. Anche i rintocchi delle campane all’avvicinarsi dei temporali dei decenni scorsi avevano un significato analogo, oltre all’espressione di una profonda religiosità che cercava un soccorso divino a problemi terreni. Molti ricorderanno i rudimentali cannoni del dopoguerra o le scorribande degli aerei che spargevano sulle nubi quello ioduro d’argento, che oggi non si può più utilizzare perché inquinante.[che
sia inquinante è vero, quale sia la normativa che ne disciplina l'uso
in Italia, non lo sappiamo, ndr]
E’ da attribuire all’ingegnere americano Stiger la scoperta, dopo attente prove sperimentali, del teorema che possiamo così sintetizzare: “Provocando delle vibrazioni costanti nell’atmosfera è possibile determinare la dissoluzione della grandine in pioggia”.
Tale scoperta è stata, anno dopo anno, applicata in maniera sempre più precisa e così i primi moderni cannoni antigrandine sono stati realizzati già nel 1974 negli Stati Uniti, dove sono oggi
largamente utilizzati, per proteggere diversi tipi di colture pregiate.
[Queste affermazioni sono profondamente errate e denotano come le
informazioni possano essere - forse anche in buona fede - manipolate a
piacimento: Albert Stiger non era ingegnere bensì viticoltore, non
era americano bensì austriaco, non elaborò alcun teorema ma andò
per tentativi; i primi cannoni "Stiger" sono del 1896 e
trovano uno dei momenti di massima espansione tra il 1899 e il 1900
proprio in Italia. In America giungeranno più tardi, ma comunque
molto prima del 1974, e non risulta che oggi siano largamente
utilizzati, in quanto la difesa attiva negli USA è soprattutto
affidata all'inseminazione delle nubi con ioduro d'argento tramite
mezzi aerei, da parte di società private, quali la Weather
Modification Inc. di Fargo, North Dakota. Ndr]
Quattro sono le aziende specializzate nella produzione di questi strumenti di difesa agricola: hanno sede rispettivamente in California, Nuova Zelanda, Spagna ed Italia. L’azienda italiana ha sede in provincia di Cuneo.
Il funzionamento degli attuali cannoni antigrandine continua ad ispirarsi al principio di Stiger:
attraverso un sofisticato meccanismo meccanico ed elettronico una certa quantità di gas propano
(il classico gas da cucina) viene iniettato in una camera di combustione collegata con una canna tronco-conica dell’altezza di 6 metri, il cui scopo è quello di amplificare l’effetto.
Allo scoccare di una scintilla nella camera di combustione il gas propano presente produce un forte scoppio, che determina la formazione di un’onda d’urto che, fuoriuscita, raggiunge l’atmosfera fino all’altezza di circa 20.000 metri.
[Non c'e' alcuna base fisica che possa supportare questa
affermazione. Per consentire una propagazione del suono per 20 km con
energia tale da creare un'onda d'urto sufficiente a frantumare la
grandine, occorrerebbero potenze di emissione di svariati ordini di
grandezza superiori a quelli erogati dal cannone al suolo. Talora già
i tuoni non sono più udibili a distanze ben inferiori a 20 km . Ndr]
Il ripetersi di questi scoppi e la produzione di successive onde d’urto a distanza costante producono nelle nubi grandinigene l’effetto “Stiger” e così i chicchi di grandine vengono trasformati in pioggia o tutt’al più in flaccidi ammassi di nevischio. Nota bene: i cannoni moderni non sparano ioduro d’argento o altre sostanze chimiche: solo aria.
[Non viene mai fatto cenno alle frequenze più efficaci nel
produrre tale frantumazione; è inverosimile inoltre che dalla
frammentazione del ghiaccio si possa produrre un "flaccido
ammasso di nevischio", che ha una genesi meteorologica del tutto
diversa. Non è vero che sparano solo aria: la deflagrazione della
miscela di propano produce quanto meno anidride carbonica. Ndr]
Nulla, quindi, di magico o stregonesco, né d’inquinante: solo sequenze d’onde d’urto che agiscono sulla verticale del cannone fino ad un raggio di 400-500 metri. Disposti ad opportuna distanza uno dall’altro essi possono efficacemente proteggere un territorio omogeneo e raccolto, a coltura
intensiva. Logicamente queste onde d’urto non sono in grado di spostare i temporali; possono soltanto trasformare i chicchi di ghiaccio in acqua, rendendo meno pericolosi i temporali estivi.
[Di magico e stregonesco rimane la credulità popolare che
attribuisce grande significato al "botto" ed ignora
ostinatamente il metodo scientifico della verifica dei risultati. Ndr ]
I “cannoni” sono arrivati a Barbaresco nel 1999; sono gestiti dall’Associazione Difesa Territoriale di Barbaresco che, nata proprio per questo motivo, sta ampliando la sua sfera d’attività ad altri aspetti della gestione del territorio viticolo. Per esempio il ripopolamento degli uccelli insettivori mediante l’insediamento di nidi specifici, il mantenimento di aree inerbite con flora spontanea lungo i vigneti per aiutare l’equilibro ecologico degli stessi, ecc.. Un lavoro attento, che si basa su conoscenze antiche, applicate con occhio moderno e scientifico; un lavoro d’equipe che ci riporta a tempi passati, quando lavorare insieme era una parte essenziale della vita su queste colline.
[All'Associazione Difesa Territoriale del barbaresco consigliamo di
spendere meglio i propri denari, ammesso che non derivino da pubblici
finanziamenti. Ndr]
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