OPINIONI 
NEVE
di Luca Mercalli  
In "Rivista della Montagna, Dimensione Sci", Dicembre 1998

Il Lago di Valsoera è incastonato a 2400 m di altitudine in un remoto angolo del massiccio del Gran Paradiso. Di qui passano pochi escursionisti, ma i guardiani della diga vivono tutto l’anno protetti da una piccola casa abbarbicata alla roccia. Al mattino del 14 marzo 1972 gli uomini di turno, valligiani temprati da molti inverni, erano terrorizzati. Del loro rifugio, solo il colmo del tetto e le antenne emergevano da un deserto bianco che da oltre un mese non faceva che crescere in continuazione, alimentando la prospettiva di rimanere sepolti vivi. La misura del manto di fiocchi al suolo forniva lo straordinario valore di 8,5 m di spessore: i guardiani ancora non sapevano che questo semplice numero, scritto con una biro su un quaderno a quadretti, era destinato a rimanere in evidenza negli annali della meteorologia alpina. L’inverno 1971-72 riversò a Valsoera un totale di 15,5 m di neve e su tutte le Alpi occidentali conquistò il primato di nevosità del ventesimo secolo. Si apriva un decennio di grandi nevicate, che vide altre stagioni da oltre 10 metri nel 1973-74, 1976-77, 1977-78. Skilift e seggiovie giravano a pieno regime, e ovunque ci fossero pascoli accessibili si costruivano nuovi comprensori o si ampliavano quelli esistenti. In questa selva di piloni e funi d’acciaio, nessuno si curò della variabilità del clima. A chiarire le idee ci pensò l’inverno 1980-81, con una lunga sequenza di giornate serene. Le piste rimasero coperte d’erba ingiallita mentre l’audience delle previsioni meteo cresceva di giorno in giorno. In un’alternanza di anni più o meno bianchi, si tirò avanti fino al 1989, e poi al 1990, altri anni neri nella storia dell’industria turistica invernale. Ormai era chiaro che il rischio legato alla variabilità della comparsa della neve naturale non poteva essere trascurato in un sistema che macinava miliardi di lire (ma anche di franchi e di scellini) e si aprì l’era dell’innevamento programmato. Altro denaro, altri cantieri, scavi, tubazioni, e addirittura piccole dighe, per disporre dell’acqua da "sparare" che d’inverno, in montagna, è sempre poca. Per non parlare del paradosso energetico di bruciare petrolio per produrre tanti kWh da trasformare in cristallini di ghiaccio buttati ai quattro venti. Ma il problema della disponibilità di neve sembrava risolto e si guardava al cielo con il fare sprezzante di chi è stato più furbo. Poco dopo, le immagini televisive che dai vari campionati in Sierra Nevada, nelle Rockies canadesi piuttosto che nell’Hokkaido giapponese, mostravano ora pioggia battente, ora le primule in fiore in pieno inverno, ridimensionarono anche la potenza di fuoco dei cannoni. Nonostante queste delusioni, è curioso constatare come l’industria del turismo invernale, almeno quella alpina, e la comunità scientifica dei climatologi, abbiano avuto solo pochi e tiepidi approcci. Dal canto loro, gli studiosi andavano avanti, analizzando le nevicate del passato ed elaborando modelli di simulazione per il futuro. Ormai oggi si può affermare con un buon margine di affidabilità che l’innevamento alpino si sta riducendo. Non solo perché si fanno frequenti gli anni in cui nevica poco, ma anche perché l’aumento della temperatura del pianeta – sia esso naturale o causa dell’effetto serra generato dall’inquinamento antropico – riduce la durata della neve al suolo, tanto quella caduta dalle nubi quanto quella sparata dai cannoni. E’ proprio di questi giorni la chiusura di una ricerca elaborata dalla Società Meteorologica Subalpina con il sostegno dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, che ha considerato oltre 1.200.000 dati giornalieri di altezza della neve misurata in 60 località del Piemonte e della Valle d’Aosta dai primi anni del secolo ad oggi. Emerge che, a partire dal 1981, esiste una netta evidenza di riduzione della nevosità. Ben 12 degli ultimi 17 anni presentano infatti, a tutte le quote comprese tra la pianura e i 2700 m, un innevamento inferiore alla media del trentennio precedente. Assumendo ad esempio la serie di Bardonecchia, vediamo che la quantità media di neve che cade in un anno è passata dai 257 cm del periodo 1961-80 ai 191 del 1981-96, con una riduzione del 26%. Tra questi anni magri, non sono mancati veri e propri estremi negativi, con gli inverni "neri" del 1981, 1989 e 1990, quest’ultimo con un totale di neve caduta di soli 75 cm. Il periodo delle feste natalizie, che tradizionalmente assicura il maggior gettito economico, è spesso esposto a un forte rischio di scarso innevamento, come avvenuto nel 1980, 1987, 1988, 1989 e 1991, anche se non mancano recenti eccezioni positive, leggi il bianchissimo dicembre 1996. L’aumento delle situazioni estreme, è d’altra parte una delle evoluzioni climatiche attese in futuro, che aprono una fase di "troppo o troppo poco" difficile da gestire sul piano economico.

Non è possibile dire oggi di quanto si scalderà l’atmosfera nei prossimi 100 anni. Da 1 a 4 gradi, a seconda delle regioni e delle stagioni. Ma il segno più, è sicuro. Una ricerca condotta dal centro studi della neve di Météo-France già nel 1994, presentava i potenziali effetti di un aumento termico medio di 1.8°C a 1500 m di altitudine: la durata dell’innevamento si potrebbe ridurre di 30-40 giorni per anno, passando ad esempio da 174 a 132 giorni nella regione del Monte Bianco e da 100 a meno di 60 giorni nei massicci meridionali. E i cannoni diverrebbero peraltro inservibili per mancanza di freddo. A conclusioni simili è giunto anche il rapporto PROCLIM, da poco concluso a cura dell’Accademia delle Scienze svizzera, che vede nella diminuzione dell’innevamento alle quote medie, un grave danno economico al sistema turistico elvetico. Nel futuro di un clima più caldo, le alte quote potrebbero cavarsela meglio, e – secondo alcuni modelli numerici – veder addirittura aumentare le nevicate. In questo scenario, i comprensori più elevati sarebbero favoriti, ma non si può trascurare a quante e quali pressioni verrebbe sottoposto il delicato ambiente alpino della fascia superiore ai 2500 m, nonché ai nuovi problemi di sicurezza che si verrebbero a creare spostando tutta la popolazione degli sciatori in luoghi dove i pericoli oggettivi sono più numerosi e difficili da affrontare. Per lo sci alpino si apre dunque un periodo di profonda riflessione, resa ancor più delicata dall’incertezza con la quale si devono considerare le previsioni sull’evoluzione del complesso, e ancora poco conosciuto, sistema atmosferico. Ma non per questo gli operatori turistici (e gli investitori di denaro, tanto più se pubblico) devono restare con la testa nel sacco e sperare che il cielo faccia ciò che essi si aspettano. Sarebbe come se un malato di cancro, ignorando i primi sintomi, si rifiutasse di sottoporsi a esami medici sperando in un malanno temporaneo. La cura non consisterà certo nel far nevicare laddove il clima non lo consentirà, ma si tradurrà in una pianificazione anticipata che guarda lontano, al fine di attutire il colpo che potrebbe stordire la fragile economia delle comunità di montagna.



Torna indietro

Guida al   sito    |    Contattaci    |    Segnala il sito    |   Credits    |   Copyrights